“CAPTAIN”, tratto da “Chat-Line”

Fin da bambino, Manolis Lagoudes ha avuto un’unica idea di sé: vestire una divisa. Ma la vita ha deciso diversamente: problemi in famiglia non gli hanno consentito di studiare all’accademia militare, e la stessa scuola ordinaria è stata da lui frequentata in maniera approssimativa. Suo fratello ha avuto tutti i privilegi, e ora è vice dirigente di una piccola industria che produce latticini non lontano da Kavala.

 

Sicché, dopo un apprendistato umiliante, senza avere mai conseguito il titolo di ragioniere che suo padre pretendeva come definitiva affrancazione dalla modestia sociale, ora Manolis lavora nella ditta di esportazioni dello zio. Ha imparato l’inglese, o almeno quel surrogato sciatto che serve ai mercanti di tutto il mondo per intendersi su fatture e modalità di consegna. In Grecia non è così comune conoscere le lingue straniere. Ma non ha mai smesso di coltivare l’estasi della divisa. Così ha iniziato ad acquistare giornali specializzati e si è abbonato a una rivista americana che gli arriva mensilmente. Ha persino investito una somma, che non si sarebbe potuto permettere un professionista di successo, per comperare a rate “La Grande Enciclopedia Illustrata delle Uniformi”, dove, con la consulenza dei maggiori esperti di storia militare, vengono presentate le divise dei più famosi Corpi europei. Ma da quando, con un dichiarato anelito di progressismo, lo zio ha ceduto alle richieste della segretaria e si è collegato a internet, Manolis ha conosciuto un universo fantastico.

 

Dopo l’orario di lavoro, si trattiene in ufficio vestendo il suo delirio con i paludamenti di uno zelo che non ha mai posseduto. “Carte da sistemare” è il pretesto con cui ruba, oltre all’ammirazione del principale, anche il sublime idillio della trasgressione. Quindi attende che tutti siano usciti (lo zio abita a dieci chilometri, perciò è improbabile che venga a controllare più tardi), e avvia il computer facendo attenzione a non accendere la luce per non essere notato dalla strada.

 

Sul programma di conversazione, Manolis ha creato un proprio canale dal plausibile titolo: #uniform. Ma ha dovuto attendere un tempo incalcolabile, puntualmente vinto dal sonno che lo coglie davanti al monitor dopo le prime due ore d’inutile vagabondare nei labirinti della Rete, prima di avere visite.

 

Ecco, la lieve sonorità del campanello virtuale lo fa sobbalzare (stava sognando un prato infestato da farfalle che si alzavano facendo vibrare l’aria a un suo battito di mani, e un ponte immenso sullo sfondo); finalmente qualcuno, o meglio uno, uno soltanto delle centinaia di migliaia di presenze che popolano gli oltre diecimila canali del server Ircnet, lo sta chiamando.

 

Manolis reagisce con l’ansia e l’indecente piaggeria del ristoratore che accolga un cliente nella sala deserta da settimane. Sicché il suo guerresco soprannome spicca come un faro nella notte adulterata dai bagliori del video.

 

Captain: halloooooooooooo!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! come in, my soldier….

 

Certo, tutto deve essere in carattere. Perciò anche l’approccio con il visitatore, di cui al momento egli ignora età sesso provenienza estrazione, è improntato a quel genere di galanteria militare che in Grecia non esisteva più nemmeno all’epoca dei colonnelli. L’atmosfera voluta da Manolis, che nel camuffamento del chat si arbitra il titolo di capitano mentre nella realtà è stato riformato alla visita di leva, è quella dei ricevimenti ufficiali di cui sentiva parlare sempre più raramente da suo nonno. Prima che morisse, il vecchio gli raccontava delle serate di gala ad Atene. Nel rigido formalismo del rito, gli alti graduati resistevano all’olocausto delle divise attillate e di colletti steccati che ferivano la parte bassa delle mascelle. All’alba, dopo danze e proclami diffusi con tono costantemente alterato come se si trovassero davvero sul precipizio di decisioni fatali, pretendevano di avere ancora l’aria marziale e ineludibile dei fiori appena sbocciati. Per molti generali serate come quelle erano l’atto di eroismo più autentico della loro vita.

 

I suo interlocutore ha un nick strano: Tiger, nome cifrato che agli occhi di Captain disvela il labirinto di missioni inconfessabili. Ma Tiger è solo un ragazzino di Manhattan maniaco del basket e tifoso dei Chicago Bulls, che fa raccolta di magliette e divise sportive dei suoi protetti.

 

Tiger: u wanna trade basket champion’s tshirts and uniforms?

 

E in rapida successione, con trasporto di amante gli racconta le ultime novità di Michael Jordan, 196 cm., coloured, Guard, incontrastato numero uno al mondo, trentamila punti nella NBA, dodici convocazioni all’All Star Games, otto volte capo cannoniere della Lega; e gli confida i gusti vagamente trasgressivi di Dennis Rodman, 203 cm., Power Forward, strano personaggio con il vezzo di tingersi i capelli di colore diverso a ogni partita, tatuato persino, dalla testa alla pianta dei piedi; e poi il grandissimo Scottie Pippen, 200 cm., Small Forward, incrollabile pilastro dei Bulls verso la cui generosità i tifosi rimarranno debitori fino alla consumazione dei secoli. Anzi, Tiger gli propone l’invio gratuito dell’archivio fotografico in cui si possono ammirare gli sgargianti cromatismi della capigliatura di Rodman.

 

Allora Captain, che stenta a credere all’imbecillità della richiesta pensando di fraintendere il gergo dei teenager, quando infine si rende conto dell’equivoco sente la necessità impellente di assestargli un calcio.

 

Si trattiene, tuttavia, e non per rispetto verso l'ospite che al contrario vorrebbe incenerire assieme a quei cialtroneschi titani privi di eroismo, quanto piuttosto per due ragioni solo in apparenza contrastanti: per prima cosa, non ha ancora superato il senso di riverenziale timore per la Grande Rete, alla quale ritiene di dover mostrarsi dignitoso e discreto come innanzi a un arbitro supremo; seconda, vuole preparare la vendetta con gli ingredienti dei più formidabili scacchi ricordati dalla storia. Quindi è tutto un febbricitante baluginare di eventi primitivi e attuali, dalle devastazioni di Attila vestito di pelli di capra, alle sontuose vittorie napoleoniche dell’epoca moderna, quando alla vista delle uniformi persino le donne costumate sospiravano contraendosi e dilatandosi con la sconcia voluttà di conchiglie all’approssimarsi della marea.

 

Allora gli viene in mente la guerra di Cipro contro gli odiati turchi circoncisi, e senza più la dignità di plausibili relazioni pensa di sottoporre Tiger al rito tribale dei matrimoni della terra maledetta. Il nonno gli aveva parlato – ma resistendo all’ansia di uno sbadiglio gli sembra che tutto fosse accaduto in un tempo senza più affinità con quello attuale – della festa di fine anno allestita nei locali del circolo militare – però quando come dove, tutto inciampa nell’arbitrio di nostalgie a metà tra narrazioni sfocate e personalissime congetture -. Gli aveva detto, il vecchio - su questo potrebbe giurare -, di un agnello portato in sala poco prima della mezzanotte, e di due inservienti in divisa da lacché agli ordini del maresciallo più rumoroso che la Grecia avesse mai conosciuto dalle gesta immemorabili di Alessandro il Grande. E nonostante a una dama fosse venuta in mente la paganità di quel cerimoniale praticato in Turchia per propiziare gli sponsali, nessuno è riuscito a resistere alla malia dello sgozzamento nel mezzo della sala scintillante. Ciascun militare – soldato e uomo, uomo e soldato senza capire chi viene prima e chi segue – si è assiepato in cerchio attorno ai sicari – uno a imprigionare le zampe, l’altro a volgergli il collo perché la lama potesse lacerare con stile -, ciascuno a smarrirsi in sorrisi alla vista del primo zampillo scarlatto, e poi a voler intingere un dito nella carotide agonizzante bagnandosi la fronte; cosicché dopo un’ora la festa era un’orgia di sangue, tutti una maschera rossa abbracciati e baciati l’un l’altro con gli auguri di buon proseguimento buoni affari buon amore buoni propositi, mentre il primo gennaio si affacciava nel chiarore di un’alba insolitamente tiepida.

 

Captain si sforza di trovare le parole giuste, ma tradurre in inglese il suo livore è al di là di quanto può fare. Allora, dopo qualche espressione che nell’intento del milite vorrebbe risultare odiosamente offensiva, razziato in pochi secondi il vocabolario e lo slang di tutta la Rete, l’uomo si abbandona a un coprolalico attacco: non invettive cifrate, ma la salutare trivialità da ciurma del Pireo che prosegue per tre quattro cinque righe maiuscole, prima di capire che Tiger se n’è andato.

 

Manolis ha il viso imperlato; e mentre appoggia la fronte sul monitor in un abbandono che la stanchezza - più ancora che il rancore – ha deciso, sullo schermo la luce azzurrina brilla più forte dove il sudore ristagna facendo tremolare le frasiin un alone come di repentina sfiducia.

 

Chiuso in un autismo sempre più iroso, si chiede cosa mai avrà commesso per aver rischiato di trovarsi faccia a faccia con le istrioniche pose di un colosso dai capelli colorati. Maledetto idiota! Lui e tutti quelli creati a immagine del dio demente che rappresenta!

 

Esausto com’è, quasi non si accorge del nuovo ospite. Ladywow si presenta assai meglio di quanto la volgarità del nick faccia intendere. Americana anche lei, Ohio. Gli dice senza preamboli che spera di essere arrivata dove da molto tempo voleva approdare. Adora lo stile militare, i fasti e le divise, e da quando naviga in Rete – non lo precisa, ma da come digita s’intuisce una consumata professionalità - non è riuscita a trovare nessuno con cui condividere la nobiltà della sua passione. Nell’eco della presentazione ristagna l’autorità di una domanda non fatta, ma alla quale l’entusiasmo di Manolis darà presto risposta. Certo, il luogo adatto è proprio questo, il porto salvifico che la difenderà con guarnigioni schierate dal becerismo e dall’idiozia della Rete.

 

Ladywow: are u a soldier urself?….really?

 

Sicuro che Captain è un milite! E per avvalorare il titolo sul cui prestigio non devono gravare sospetti, l’uomo precisa: è un ussaro, combattente di cavalleria leggera, forgiato dalla più esclusiva accademia d’Europa. E poi sa le lingue, ché a quella scuola non si è studiato solo strategia militare; storia antica, letteratura, consulenza e convegni sono il suo quotidiano lavoro. Sicché la fortuna, che poc’anzi sembrava avergli voltato le spalle, ora invece lo alletta con un dialogo intenso come egli non avrebbe osato sperare.

 

Ladywow: a hussar u said?

 

Captain: sure…i can explain to u where this name comes from

 

È così che Ladywow apprende con simulato interesse che il nome deriva dal tedesco husar, dall’ungherese huszár, e questo dal serbo-croato gusar o husar, “ladrone”, che viene dal greco medievale chosários, “scorridore”, a sua volta mutuato dal latino intollerabilmente popolare cursarius. Insomma, un predone, verrebbe da pensare, e c’è da credere che all’inizio – cioè ben prima dell’aristocratica vertigine che ora il titolo ispira – i precursori dei nobili ussari fossero davvero uomini incanagliti da una vita di razzie e grassazioni.

 

Rapito nell’estasi narrativa, Manolis racconta una storia che nella palude del suo delirio era divenuta antica molto tempo prima, intervallando le parole con sorrisi di circostanza disegnati con il solito comando JJJJ. E per sentirsi più partecipe di quanto sta dicendo, sospende per qualche secondo la conversazione, si precipita nell’armadio a piano terra, si toglie le scarpe scamosciate e calza un paio di stivali di foggia militare, chissà perché imboscati in quell’angolo remoto come un’irriferibile reliquia.

 

Già, ad esempio – continua l’uomo che ora ha di nuovo raggiunto la scrivania – lui veste sempre la divisa, perché non esistono compiacimenti della moda o abiti da cerimonia più blasonati dell’uniforme e degli stivali da ussaro.

 

Captain: see, if u wanna be a real soldier, the uniform must become part of your body….u’ve to wear it anytime, anywhere, in any seasons….

 

E con l’aiuto dell’enciclopedia aperta sull’illustrazione di un graduato di quel corpo, tratteggia accuratamente ciò che di fatto non ha mai indossato, riferendo, in un attimo di sublime ipocrisia, persino foggia e consistenza dei bottoni, uno dei quali, per avventura sfuggito alla coercizione dell’occhiello, finge ora di agganciare con ispirata dignità.

 

La donna sembra davvero sedotta. Si limita, però, a esternare un sentimento equivoco con esclamazioni che Captain intende in maniera sperticatamente elogiativa. Così la conversazione diviene incalzante soliloquio dell’uomo, interrotto qua e là da sonorità appena accennate, da lettere che ripetono se stesse nello spazio effimero di una riga.

 

Ladywow: mmmmmmmmmmmmm

 

Nel marasma dell’eccitazione, di cui anche la luce scipita dell’alba sembra essere complice, Manolis digita incurante dei refusi e delle stonature storiche, scompagina indifferentemente battaglie remote con la guerra chimica di Saddam nel Golfo, i condottieri a cavallo della Piazza degli Eroi di Budapest - di cui in immediata successione mentalmente recita i nomi: Árpád Álmos Elôd Ond Kund Tas HubaTöhötöm - con i generali di Napoleone e le tute mimetiche dei marines, le casacche senza identità di soldati comuni della ex Jugoslavia con i rigidi fèz della milizia fascista. Non si accorge nemmeno che da dieci minuti Ladywow non ha proferito parola, sovrastata dalla cascata di millanterie.

 

È a questo punto che Manolis s’interroga, e interrogandosi si chiede per la prima volta chi sia e cosa voglia il suo interlocutore.

 

Captain: milady?….are u still there?

 

Ladywow: stop talking …fuck me u bastard…i always wished to be screwed by a general….talk nasty to me like to your soldiers…

 

Manolis cerca freneticamente nel dizionario, ma certi termini non compaiono mai nelle bibliografie canoniche. Del resto, non ci mette molto a cogliere il senso della richiesta: un allettamento da lupanare, dove la divisa dovrebbe servire soltanto come sconcio tabarro all’indecenza di una scenetta da avanspettacolo. Lo stesso turpiloquio, così pervicacemente richiesto da Ladywow – ora lui comincia a pensare che quel nick è adattissimo -, lascia basito Captain: un moralismo al contrario, con il quale gli si chiede di compiacere la sguaiata voluttà di una matrona d’oltre oceano venendo meno alla galanteria con le donne, e di abiurare la dignità della missione composta entro le pieghe della divisa.

 

È mai possibile? Solo ciarpame e trivialità in una macchina che contiene il mondo, soltanto ragazzini imploranti falsi profeti dalla capigliatura color fucsia o donnacce dall’anima esausta come la morchia dei tir che settimanalmente caricano e scaricano merci senza importanza? È proprio vero che i tempi del nonno sono irreparabilmente trascorsi, e i ricevimenti di gala sono scivolati nella turpitudine del folclore?

 

Manolis osserva incredulo le righe digitate. Guarda le parole come se per la prima volta si trovasse davanti a una lapide ostile. È tutto insopportabilmente brutto, anche il nuovo giorno che ora occhieggia di tra i tendaggi grevi della stanza. Quindi si ferma, non scrive più una sillaba, esce dal chat e spegne il computer senza accorgersi che la donna se n’era già andata tra una salva di epiteti che lo stordimento di Captain ha lasciato senza destinatario.

 

Fra meno di tre ore dovrà essere ancora lì, seduto alla stessa scrivania, nella stessa stanza odorosa di fumo, con lo stesso monitor davanti agli occhi con cui egli voleva solo giocare e che per tutta la notte si è invece preso gioco di lui. È soprattutto il senso di vuoto, di un’irrimediabile empietà che sente ristagnare in petto. La sconfitta finale che spegne l’ardore dei grandi.

 

“Non sono felice”, pensa distrattamente mentre inserisce la protezione di nylon sul video come fa ogni sera la segretaria. Ma subito dopo si accorge con sollievo che non ha mangiato da molte ore e imputa al prolungato digiuno l’insofferenza.

 

Esce. A quell’ora dell’alba non c’è mai nessuno in una cittadina della provincia greca. Anzi, proprio in fondo al vicolo che costeggia il cortile della ditta, vede un uomo intento a spazzare il marciapiede. Lo conosce vagamente come un povero diavolo che di tanto in tanto esegue lavori di facchinaggio per conto del comune o di chiunque intenda affidargli un incarico. E mentre si avvicina a quella solitaria presenza – l’uomo ora gli dà le spalle e sembra preso da un puntiglio degno di più nobili compiti – Manolis fissa il selciato e si accorge che ai piedi ha ancora gli stivali di un imprecisato condottiero lucidi di grasso. Allora respira a fondo, quasi invocando un silenzio che nel suo desiderio pretende assoluto. Neanche il battito del cuore o il lieve scricchiolio delle suole.

 

Infatti, avverte soltanto lo strascicare della scopa di saggina più percettibile via via che si accosta, come in un film.

 

Sferrando il primo calcio ha una sensazione di difficoltà. Il netturbino – che non lo ha visto né sentito – è scaraventato in avanti, e nella violenza dell’urto svirgola su se stesso prima di accasciarsi di lato.

 

Poi tutto diviene più facile. C’è entusiasmo in quanto sta facendo. Voglia di vivere. La vertigine di una guerra istantanea vinta con l’arma della sorpresa. Gli stivali infieriscono al ritmo con cui poco fa il ragazzo insisteva sui tasti, martellano di punta stomaco inguine faccia la faccia la faccia la faccia la faccia….soprattutto la faccia….(non è forse il riverbero di quell’antico racconto del nonno sull’agnello sgozzato?), fino a che il manovale (o forse potrebbe chiamarlo semplicemente un “vecchio”?) rimane immoto sotto il giorno iniziato da poco.

 

Manolis è sudato. La battaglia è soprattutto fatica. Ebbrezza di vedere il nemico con le membra sfrangiate. Olocausto di corpi.

 

Allora ripassa la manica della giacca a detergere la fronte, si guarda attorno, prosegue per qualche isolato.

 

Lascia sempre la macchina lontano dall’ufficio, ma se qualcuno gli chiedesse il motivo nemmeno lui saprebbe dire perché.

 

 

 

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